Il Sole 24 Ore on-line 07 Lug 2015
Le politiche educative attente al genere sono un’arma per combattere le disuguaglianze
di Francesca Brezzi* e Laura Moschini**
Educazione di genere? Cosa è? E perché tante polemiche? Saremmo tentate di rispondere: lo chiede l’Europa, e non sarebbe solo una battuta o una risposta evasiva perché con questo termine recepiamo le indicazioni che provengono dall’Unione europea che considera la Gender Equality, vale a dire una partecipazione equa e non discriminatoria di ognuno/a alla vita familiare e sociale, il presupposto fondamentale per la cittadinanza democratica.
Conseguentemente, educare in ottica di genere secondo l’Unione europea vuol dire utilizzare una categoria d’interpretazione che consente di comprendere come l’organizzazione sociale delle relazioni tra i sessi abbia stabilito le attività più adatte a uomini e donne in base alla loro “natura” dando vita a ruoli e spesso a gerarchie sessuali all’interno della famiglia e della società. Gli studi di genere permettono quindi di scoprire l’origine sociale, culturale e non biologica/naturale dei ruoli sessuali caratteristici del sistema patriarcale, che assegna agli uomini l’ambito pubblico e alle donne la sfera del privato con tutte le attività connesse. I rapporti di potere tra i sessi si sono codificati in norme e leggi in base alle quali, fino a tempi molto recenti, alle donne sono stati negati i diritti che caratterizzano la cittadinanza. Norme che è molto difficile scardinare anche ora che la parità formale dei diritti è stata raggiunta perché continuano ad influenzare la nostra cultura attraverso modelli e stereotipi che si trasmettono soprattutto attraverso l’educazione. Pregiudizi che generano tuttora disuguaglianze sociali ed economiche alle quali gli organismi internazionali cercano di porre rimedio anche attraverso politiche educative attente al genere.
Per quanto riguarda poi l’espressione genere/gender, oggi oggetto di forti polemiche, dai documenti ufficiali di Onu, Ue, Eige (European Institute for Gender Equality) e da ultimo dalla Convenzione di Istanbul emerge che «con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività, attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini»; pertanto laddove “sesso” indica la differenza naturale - secondo alcune scuole filosofiche definibile anche ‘ontologica'- gender fa riferimento alla differenza di ruoli sociali, politici, economici e familiari.
L’ottica di genere come metodologia d'indagine e analisi dell'esistente pertanto non comporta “nessun rischio” se non quello di stimolare il pensiero critico verso una comprensione più libera perché basata sulla conoscenza (massima tra le virtù fin dall’antichità e oggi obiettivo Ue) e non sul pregiudizio. Il genere non interviene sugli aspetti biologici (gender/transgender) e non facilita fenomeni di omosessualità, trans-sessualità o omogenitorialità; è quindi infondato sostenere che il genere annulli la differenza tra uomo e donna in nome dell’uguaglianza, dove per uguaglianza s’intende esclusivamente la parità dei diritti. Il genere consente invece di restituire valore alle differenze, smascherando i pregiudizi e gli stereotipi e restituendo dignità a ogni individuo senza esclusioni.
Vorremmo quindi sottolineare la fecondità dell'ottica di genere nei corsi universitari e nell’educazione scolastica, dal momento che essa, indagando oltre le ”evidenze”, consente di riportare alla luce e all’attenzione pubblica studi e ricerche autorevoli che permettono un’analisi più realistica e veritiera dei fatti e delle situazioni. “Evidenze” basate su “leggi di natura” e quindi sulla “naturale” inferiorità della donna rispetto all’uomo come quelle che portarono fino al XX secolo molti uomini “di ingegno” ad affermare che a causa del loro cervello più piccolo le donne fossero meno intelligenti e incapaci di svolgere certi compiti e professioni. Tale pregiudizio -che stenta ancora a essere rimosso- ha impedito dapprima alle donne di accedere ai diritti tra i quali quello allo studio, poi di impegnarsi in attività considerate “maschili” e oggi ostacola la condivisione dei compiti di cura alla casa e alla famiglia -“per natura” a loro carico- impedendo di fatto la loro affermazione professionale o almeno la loro indipendenza economica.
Gli studi di genere costituiscono un approccio radicalmente innovativo, diremmo rivoluzionario, che consente di indagare su aspetti sociali inesplorati o non considerati e sul persistere anche nelle società più “aperte” di stereotipi e pregiudizi. Innovatività che produce opposizioni più o meno esplicite da parte di chi vuole mantenere lo status quo nei ruoli e nelle gerarchie in famiglia e nella società. Se ne deve invece cogliere l’enorme portata educativa comprendendo il significato preciso dei termini per evitare polemiche o contrapposizioni ideologiche basate su una non corretta o almeno non coerente rispetto a quella adottata dagli organismi internazionali concezione di genere. Polemiche come quelle a cui assistiamo in questi giorni contro l’educazione di genere nelle scuole.
Facendo riferimento alla nostra esperienza, da molti anni, noi adottiamo l’ottica di genere in sintonia con altri atenei europei per sollecitare in chi studia con noi il pensiero critico, proprio dell’educazione liberale cara a Socrate e agli Stoici, e la consapevolezza del valore di ogni differenza come presupposto per una vera parità dei diritti e delle opportunità.
A tutto ciò vorremmo aggiungere che in tanti anni di docenza la risposta da parte di studentesse e studenti è stata oltremodo positiva. Avvicinarsi a quei contenuti ha rappresentato un momento di crescita e questo non solo nel master in Pari opportunità che Roma Tre da 12 anni organizza e arricchisce in ogni edizione di contenuti e itinerari, ma in tanti convegni, corsi, seminari che si svolgono con grande partecipazione (e serenità) nel nostro paese.
Riteniamo quindi che l’ottica di genere sia necessaria negli insegnamenti scolastici e universitari perché, come abbiamo detto, anche se per legge donne e uomini sono ormai pari, nell’ambito familiare e lavorativo le donne continuano a essere emarginate, spesso doppiamente penalizzate se appartengono ad altre categorie oggetto di discriminazioni. La discriminazione di genere, infatti, presenta una sua specificità che attraversa e può combinarsi con tutte le altre forme di discriminazione.
La potenzialità formativa se compresa e svolta da competenti è grande: introdurre l’educazione di genere a tutti i livelli scolastici significa non solo formarsi alle tematiche attinenti le pari-eque opportunità tra uomo e donna, ma altresì focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettiva parità tra persone. Ciò consente, oltre la lotta agli stereotipi già indicati, di opporsi alla violenza (la Convenzione di Istanbul considera l’educazione di genere uno strumento indispensabile per contrastarla) e al bullismo che affligge le scuole, di rifiutare le discriminazioni sociali e politiche, di riconoscere il valore e la dignità di persone diverse dai modelli tradizionali per affermare una mentalità inclusiva.
Gli studi di genere, per loro natura interdisciplinari, non possono costituire un capitolo a parte, ma riguardare trasversalmente ogni ambito e materia. Attraverso di essi si riesce a scoprire, per esempio, che se l’intelligenza non è legata alle dimensioni del cervello, al contrario, sono le pluralità di interconnessioni che consentono le capacità multitasking alle donne tanto utili nella nostra società (e tanto sfruttate quanto sottovalutate); in economia che i bilanci e il modo in cui vengono spesi i soldi pubblici non sono affatto neutri, ma riproducono le gerarchie esistenti tra i generi, che la raccolta e l’analisi dei dati disaggregati per genere restituiscono la vera realtà delle condizioni di vita e lavoro e i bisogni delle persone tutte, uomini e donne, nella quotidianità.
Ancora si può ricordare come gli studi sulla storia delle donne, dai quali l’ottica di genere deriva, costituiscono una base di partenza, ma non esauriscono il discorso che s’intreccia positivamente con tanti altri ambiti tra i quali la filosofia soprattutto morale, l’economia, le scienze politiche e sociali, architettoniche, urbanistiche, i saperi scientifico-tecnologici e quelli riguardanti la comunicazione e i mass media. Un tale approccio favorisce una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti/e di differenti discipline, e un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche anche nelle scuole che può portare a una riformulazione del sapere dato.
Se lo scopo dell’educazione e della formazione è l’insegnamento di un pensiero critico e l’apertura alla realtà che ci circonda, crediamo –come docenti - che tali tematiche debbano essere presenti nella scuola, anche per evitare distorsioni, fanatismi e intolleranze.
L’educazione in ottica di genere può quindi efficacemente contribuire all’educazione di un buon cittadino e di una buona cittadina, dotati di senso critico, di autostima e consapevoli del valore delle proprie differenze e del proprio punto di vista anche se diverso da quello dominante.
Il nostro auspicio (seguendo del resto due recenti determinazioni del Miur del 2011 e del 2013 e i richiami presenti nella legge sulla Buona scuola) è che si realizzi l’inserimento dell’ottica di genere nei programmi scolastici, per promuovere quel cambiamento radicale nella nostra cultura che disegnerà una nuova idea di cittadinanza, attiva, responsabile, nella quale il valore di ogni individuo può essere riconosciuto e perché no utilizzato per il progresso dell’intera società.
*Delegata del Rettore di Roma Tre per le Pari opportunità
** Coordinatrice del Master in Pari opportunità di Roma Tre